
Il fast fashion sta morendo, ma non nel senso che tutti ci auguriamo.

Shein, quanti soldi!
Il brand cinese è in attesa di un finanziamento dalla General Atlantic e , senza ombra di dubbio, potrebbe ricevere un responso superiore al valore combinato di H&M e Zara: stiamo parlando di circa 100 miliardi di dollari secondo il sito di economia e finanza americano Bloomberg. L’azienda è pronta a divorare la concorrenza.
Con l’avvento di Shein, e con la sua rapida ascesa, possiamo affermare con certezza l’inizio di una nuova era della moda: il fast fashion sta morendo, lasciando in erede l’ultrafast fashion.
La strategia malefica
La vendita veloce si è sviluppata negli anni ‘ 80 in America, si passa da un mercato basato sul prodotto, ad uno basato sulla produzione. Ad oggi il fenomeno è conosciuto semplicemente con il nome di “risposta rapida” , o per essere più internazionali, “fast fashion” . Zara è stata la regina di questa veloce rivoluzione, ma ora ha perduto la sua corona.
La moda veloce viene classificata come usa e getta perché ha immesso sul mercato di massa prodotti a prezzi relativamente bassi. Infatti, innovando regolarmente i vestiti almeno una volta alla settimana, o al massimo ogni due, le aziende che optano per questa tattica “mantengono” i loro clienti, inducendoli alla ricerca costante di sempre nuovi prodotti.
Shein è oltre i giochi del mercato: l’azienda propone più di sei mila nuovi articoli ogni giorno.

L’altra parte della medaglia
La valutazione potenzialmente sorprendente di Shein maschera anche parte dell’impatto negativo che l’industria del fast fashion ha sull’ambiente.
Secondo un rapporto delle Nazioni Unite, l’industria della moda produce dall’8% al 10% di tutte le emissioni mondiali di CO2, ovvero tra i 4 e 5 miliardi di tonnellate di anidride carbonica immesse in atmosfera ogni anno, per non parlare poi del consumo di acqua…
Shein nel “Rapporto sulla sostenibilità e sull’impatto sociale del 2021” ha affermato che la moda ha un impatto innegabile sulla salute del pianeta e ha affermato che si sta battendo per raggiungere l’obiettivo di produrre “zero rifiuti”, che annuncerà entro la fine di quest’anno. Tutti possono migliorare!

Je Suis Vintage!
Qualche giorno fa ho avuto il piacere di intervistare Antonio Pignatiello, Giuseppe D’Urso e una loro collaboratrice Alessandra Aiello in merito alla difficile combinazione di abbigliamento e sostenibilità.
Antonio e Giuseppe sono i fondatori di Je Suis Vintage, un’azienda di Somma Vesuviana che dal 2019 si occupa di ridare vita a vecchi capi tramite un processo di upcycling, riutilizzare gli oggetti per creare un prodotto di maggiore qualità.
Il loro brand è nato per caso durante le ore universitarie, con lo scopo di guadagnarci su…

“Tra le tante idee scegliemmo di voler vendere abbigliamento vintage online. Andammo a Resina (importante mercatino dell’usato qui in Campania) e con 180€ in totale, quindi 90€ a testa, cominciammo la nostra attività.”
Secondo il loro punto di vista, Shein ha dimostrato che non siamo ancora pronti per una moda sostenibile:
“Al cliente finale purtroppo non interessa se il prodotto è riciclato, rigenerato o di upcycling. Se il prezzo è buono e il prodotto è bello, allora lo comprano. Se il capo è bello, ma costa troppo allora no. Bisogna però ribadire che realizzare un prodotto di upcycling, cioè assemblare pezzi di scarto è dispendioso, molto.”

“Bisogna puntare anche ad uno stile da poter indossare nel quotidiano, anche i brand del fast puntano a quello. Un capo acquistato Con 5 o 10 €, secondo il consumatore, può essere utilizzato più di una volta, quando in realtà questi prodotti sono nati per morire. Sicuramente il nostro prodotto è qualitativamente superiore, perciò puntiamo ad un qualcosa di accessibile al portafoglio e bello da indossare, seguendo le tendenze.”
“Questo è il nostro ostacolo, da un lato il consumatore dovrebbe essere più propenso a voler comprare prodotti come i nostri, dall’altro dobbiamo essere quanto più standard possibili, altrimenti non riesci a guadagnarci”

Perché un ragazzo preferisce acquistare, anche a prezzi elevati, un grande marchio che utilizza prodotti sintetici e non eco-friendly piuttosto che un prodotto di upcycling come il vostro?
“Per me è facile dare una risposta, perché noi non siamo The North Face, né Gucci , né Yves Saint Laurent: il nome è tutto. Il secondo aspetto è che questi stessi brand non spingono sul green. Se iniziassero a cambiare la fase di lavorazione per adeguarla a prodotti riciclati ed ecologici allora cambierebbe qualcosa. Sembra quasi che stia diventando una moda l’essere sostenibili, ma non è così, in realtà. Noi che siamo piccole aziende non possiamo imporre un nuovo stile di acquisto. L’unica cosa che possiamo fare è produrre dei bei capi e farli uscire a buon prezzo.”
“Tra i giovani adesso vale molto anche il concetto di sfida: chi acquista Gucci, chi acquista altro, chi paga di più e chi meno, è una competizione fine a se stessa. Bisogna puntare ad una fascia di pubblico un po’ più grande d’età, più sensibile all’acquisto di capi riciclati.”
Come immaginate la moda del futuro?
“Sicuramente sarà una moda più sostenibile. Già dai poteri forti sono state emanate leggi che obbligano le aziende per essere più sostenibili. Anche se ho l’impressione che con l’avvento di Shein ci sia stato un rovesciamento: da un lato i Governi impongono alle aziende di essere più sostenibili, dall’altro c’è l’ingresso a queste grandi imprese che cambiano tutte le carte in tavola. Spero che entro il 2030 si segua un orientamento più sostenibile.”

C’è qualcosa che volete sottolineare della nostra chiacchierata?
“Credo sia fondamentale il concetto di educare il consumatore ad acquistare in un certo modo. Basterebbe, un po’ come i riquadri accanto alle opere d’arte che le descrivono, un’attenta lettura dell’etichetta di un capo. Però chi cavolo legge l’etichetta?”
“Oppure girare un film a riguardo, o una serie tv! Ma non con il tono documentaristico, proprio con una trama e storie che si intrecciano. In realtà hanno già girato una serie del genere: si chiama Effetto Terra, Francesca Michelin indossava i nostri jeans!”
Caterina La Marca