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Perché certi insegnanti fanno questo mestiere se invece creano traumi ai ragazzini?

Vi sfidiamo: pensate ai vostri insegnanti delle vostre scuole (elementari, medie, superiori). Chi vi viene subito in mente? Quella maestra che vi ha presi per mano, il primo giorno di scuola, sorridendovi e vi ha portato in una classe piena di festoni colorati, mentre voi sareste stati a piangere perché non volevate lasciare la mamma? O quel professore che, nonostante fosse severo, era giusto e vi ha insegnato il rispetto e cosa significa impegnarsi seriamente per raggiungere un obiettivo? O pensate a quei docenti che vi hanno fatto piangere lacrime amare? Quelli di cui non capivate le richieste, che sembravano assurde? Quelli che vi hanno fatto passare la voglia di studiare fino al punto di, in alcuni casi, abbandonare il vostro percorso scolastico?

Noi di Bill, innanzitutto, vi siamo vicini e comprendiamo il vostro malessere nel ricordare quei momenti. Ma il nostro principale obiettivo è trasmettere la scienza e la conoscenza, quindi vi spiegheremo perché certi insegnanti (non tutti) dovrebbero cambiare lavoro invece che continuare a traumatizzare generazioni di alunni. Perché sono carenti di un aspetto fondamentale. Leggete fino alla fine per scoprire il motivo.

Ho visto la luce: l’insegnamento come vocazione

Partiamo da un aspetto fondamentale: tutti noi siamo spinti da motivazioni intrinseche ed estrinseche nel nostro agire e, nel nostro caso specifico, nella scelta del nostro lavoro. Le prime sono le nostre aspettative, i nostri desideri interni, i nostri ricordi e le nostre emozioni a riguardo, mentre le altre riguardano le aspettative del mondo esterno, la considerazione che la società ha nei confronti di quel determinato ruolo… quindi, ogni nostra scelta può considerarsi una somma di questi due aspetti. Nel caso di noi poveri disperati che abbiamo scelto di diventare insegnanti, la convinzione che ci muove ha un solo nome: “vocazione”. Come quella dei preti. Peccato solo che a chiamarci non sia stato il Padre Eterno, ma più un’illuminazione stile San Paolo sulla via di Damasco in senso laico (nel mio caso, fu un gessetto in piena fronte da parte della professoressa di tecnologia).

Spinti dallo spirito di Piero Angela, che si è impossessato di noi, desideriamo divulgare le nostre conoscenze per crescere le future generazioni, però ci siamo fatti un’idea dell’insegnamento sulla base della nostra esperienza da studenti. Prendiamo come esempio positivo i professori che abbiamo amato, mentre teniamo bene a mente quelli che non abbiamo sopportato perché non vogliamo diventare come loro.

Quanti alunni traumatizzati da insegnanti carogne abbiamo visto nei film?

Tra il dire e il fare c’è di mezzo… l’empatia (e il conto in banca)

Ma perché, allora, ci ricordiamo i docenti che ci hanno traumatizzato con i loro modi di fare? Galimberti ha una parola sola: empatia. Educare non significa istruire: significa comprendere le esigenze e i talenti dei propri alunni e saperli coltivare. Invece molti insegnanti pensano solo ad impartire le loro conoscenze, trascurando il resto, volendo studenti obbedienti e ligi ai loro dettami. Costoro sono figli di un sistema scolastico ormai superato, basato sull’idea che i discenti siano una tabula rasa, un alberello da drizzare o “selvaggi da correggere”. Ovvero: gli alunni sono sbagliati; tocca a noi “aggiustarli”.

Altro aspetto non trascurabile è quello economico: con la crisi e gli stipendi sempre più bassi, a fronte di un aumento delle ore di lavoro, la carriera scolastica sembra l’unica che garantisca stabilità e benessere economici, accompagnati dalla fake news più grande della storia, dopo quella di Riccardo Cuor di Leone amico di Robin Hood: i tre mesi di ferie. Perciò non è difficile trovare, all’interno di un Collegio docenti, persone completamente sprovviste di adeguata formazione, ma che vedono l’insegnamento come piano B o C (o, peggio ancora, D) per risollevare le loro finanze.

Anche Piero Angela era stato traumatizzato dai suoi insegnanti alle superiori. Ironia della sorte.

Empatici, ma non troppo

Evidentemente gli insegnamenti di Mary Wollstonecraft, John Dewey, Daniel Goleman e i concetti come intelligenza emotiva non hanno raggiunto i cuori e le menti delle due categorie di docenti sopra citati. La loro idea di insegnamento mal si sposa con le nuove dottrine pedagogiche, le quali abbinano l’educazione emotiva ai contenuti delle materie. Ma solo chi sa coniugare questi due aspetti, ovvero insegnare a vivere mentre si fa lezione su Carlo Magno (Alessandro Barbero docet), ha in mano la chiave dei cuori dei propri alunni.

Attenzione però: dall’essere empatici all’essere zerbini il passo è brevissimo. Galimberti sottolinea l’importanza di mettere in chiaro l’asimmetria della relazione insegnante-studente, sebbene non si parli di una dittatura militare. I modelli da seguire? Facile: Piero e Alberto Angela, il professor Barbero e tanti giovani divulgatori. Fermatevi a pensare un attimo: quante volte ci sarebbe piaciuto averli come insegnanti? Tante, vero? Ma ragionateci un attimo: ci scambiereste mai messaggi su WhatsApp?

Licia Ballestrazzi

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