
Tra tutte le scelte sbagliate che un’azienda può fare, il pinkwashing è una di queste.
Il termine pinkwashing deriva dall’unione di “pink” (rosa) e “whitewashing” (imbiancare, mascherare). Propriamente, quindi, indica il voler “colorare” qualcosa di rosa, per nascondere ciò che c’è sotto. E il rosa fa riferimento alla femminilità. In altre parole, il pinkwashing è un atteggiamento per il quale alcune aziende scelgono di sostenere (in apparenza) le istanze femminili, per nascondere i loro reali obiettivi, cioè puro e semplice guadagno.
E voi direte: perché, che altro dovrebbe fare un’azienda se non guadagnare?
E allora sorge spontanea la domanda: dunque il fine giustifica i mezzi?
Ecco perché il pinkwashing non ci piace
A tutti noi piacciono le aziende che prendono a cuore i temi importanti della società. La lotta al cambiamento climatico, la scelta di metodi di produzione più sostenibili, un trattamento rispettoso dei lavoratori…
A tutti noi piacciono le aziende nelle quali possiamo rispecchiarci, che condividono i nostri valori, che promuovono iniziative interessanti e di qualità, che si avvicinano al consumatore…
A tutti noi piacciono le aziende che non pongono come obiettivo primario il “Dio Denaro”. Aziende che fanno donazioni in beneficienza, che destinano una parte dei loro guadagni per progetti socialmente utili, che non sfruttano i lavoratori ma riconoscono loro un compenso adeguato…
E se un’azienda facesse tutte queste belle cose, ma solo in apparenza? Come vi sentireste a sapere che voi, nel completo della vostra buona fede, avete acquistato un prodotto pensando che una parte dei vostri soldi sarebbe andata a chi ne ha davvero bisogno, mentre in realtà è andata ad ingrossare le tasche dell’azienda?
Beh, non so voi, ma io mi sentirei delusa, tradita.
Il pinkwashing non ci piace perché a nessuno di noi piace essere preso in giro.
L’esempio di KFC
Uno dei più noti esempi di pinkwashing è il caso di KFC, famosa catena internazionale di fast food nota soprattutto per i suoi secchielli di pollo fritto.

Nel 2010, KFC lanciò una campagna intitolata “Buckets For The Cure” a sostegno della Komen, grande associazione che si occupa della ricerca contro i tumori al seno. La campagna prevedeva che per ogni secchiello acquistato presso un ristorante KFC, l’azienda avrebbe donato 50 centesimi alla Komen. Per l’occasione, KFC ha letteralmente colorato di rosa i suoi secchielli.
L’iniziativa è andata alla grande: 4 milioni devoluti in beneficienza.
Ed ecco che giustamente a questo punto, siccome siete lettori arguti, mi farete un’altra domanda: scusa, hanno raccolto un sacco di soldi, alla fine hanno solo colorato di rosa i loro secchielli, non hanno fatto del male a nessuno, anzi!
Ma proprio perché siete lettori arguti, vi invito a tornare qualche riga più su e a ritrovare un’importante parola chiave: apparenza.
Ebbene sì: si è scoperto poi che i 4 milioni in realtà non erano stati devoluti alla Komen grazie agli acquisti dei consumatori. Ma erano stati donati da KFC a priori. Questo significa che il consumatore è stato indotto a fare un acquisto pensando di fare del bene, ha magari scelto KFC invece che un altro competitor perché riteneva lodevole questa iniziativa… Ma la verità è che le azioni del consumatore sono state totalmente ininfluenti sull’effettiva cifra donata.
Per non parlare poi dello stridente accostamento tra il modello di salute associato ai fast food (errate scelte alimentari – se consumati eccessivamente, nonché obesità e disturbi alimentari di altro tipo, con tutto ciò che ne consegue) e i valori di cura e prevenzione della Komen.

Avete capito bene: una presa in giro bella e buona.
A Bill non piace essere preso in giro. Come non piace a nessuno di noi.
E vi dirò di più. A Bill non piace nemmeno fermarsi alle apparenze: vuole sapere come stanno davvero le cose. Quando vede un’iniziativa “pink” di un’azienda (ma in realtà in generale qualsiasi tipo di iniziativa volta al supporto di specifici temi socialmente rilevanti), Bill si fa delle domande. Scava a fondo, approfondisce, fa delle ricerche.
Bill è un consumatore consapevole che non vuole dare i propri soldi a chi non se lo merita. Sii come Bill.
Michela Formicone