
Le scimmie antropomorfe si chiamano così proprio per le somiglianze fisiche riscontrate rispetto all’uomo, non solo da un punto di vista estetico. Ad esempio, gli scimpanzé e l’Homo sapiens condividono ben il 98% della sequenza complessiva di DNA. Ma quindi, date le somiglianze anche comportamentali, una scimmia che parla è possibile? Oppure il cosiddetto linguaggio “umano” è davvero prerogativa solo nostra?
Una scimmia che parla: il punto di vista anatomico
Partiamo dal presupposto che c’è un fattore facilmente identificabile: l’apparato fonatorio delle scimmie è diverso dal nostro. Eppure, come si potrebbe erroneamente pensare, le scimmie non presentano una laringe più semplice della nostra: anzi! In un recente studio del 2022 pubblicato su Science, si evidenzia che, paradossalmente, l’aumento della complessità del linguaggio parlato umano ha innescato la semplificazione dell’anatomia laringea. Ad esempio negli anni ’40 i coniugi Hayes, psicologi, tentarono di insegnare a parlare in inglese a una femmina di scimpanzè, Viki. La scimpanzé arrivò però a pronunciare solo quattro parole: mama, papa, cup e up (mamma, papà, tazza e su).

La svolta con la lingua dei segni
Le prove con il linguaggio parlato erano davvero deludenti, per questo si cominciò a provare a percorrere una linea diversa. In fondo il linguaggio umano non è di certo costituito solo da fonetica. Negli anni ’70 cominciarono a fiorire una serie di esperimenti in cui al posto delle parole, si insegnava ai primati presi in esame una lingua segnata. Il caso più famoso è quello di Koko, una femmina di gorilla che avrebbe appreso più di 400 differenti «parole» dell’ASL (American Sign Language). Apparentemente, dunque, non puntando più sulla produzione sonora dava risultati incoraggianti a favore dell’ipotesi che anche i primati potessero manipolare simboli allo stesso livello di complessità degli esseri umani.

E poi c’è la sintassi
Nel 1979 si cercò di andare più a fondo, cercando di predisporre un esperimento in cui il primate non solo fosse in grado di imparare un elenco lessicale e di abbinarlo correttamente a livello semantico, ma anche di produrre delle frasi. Il gruppo di ricerca allevò, dall’età di due settimane fino a quattro anni, un cucciolo di scimpanzé, che chiamò Neam (Nim) Chimpsky (i linguisti hanno un senso dell’umorismo discutibile: si tratta della parodia non troppo celata di Noam Chomsky). Nim visse in una famiglia umana per 4 anni, in cui si comunicava solo segnando. In poco tempo Nim riuscì a imparare 125 parole diverse in ASL. Nonostante questo, le frasi di Nim si rivelarono deludenti. Andrea Moro nel suo libro “I confini di Babele. Il cervello e il mistero delle lingue impossibili” scrive:
Più della metà di questi enunciati erano «frasi» di due soli segni in ASL, il cui ordine non era predicibile (Nim poteva dire indifferentemente mangiare banana o banana mangiare con esattamente lo stesso significato). Inoltre, nei casi di più di due segni, la «frase» conteneva spesso la semplice ripetizione di un elemento appena prodotto (banana mangiare banana) addirittura la ripetizione della stessa sequenza (mangiare banana mangiare banana). Non solo: in nessun caso, quando la «frase» passava da due a più segni, la parola aggiunta aveva una funzione strutturale.

La scimmia non parla davvero
Tramite questo esperimento risultò estremamente evidente che lo sviluppo del linguaggio in un bambino umano e in un primate non era assolutamente comparabile (a 52 mesi Nim era ferma sulle “strutture” acquisite, mentre i bambini alla stessa età producono frasi 8 volte più lunghe). Inoltre, molto spesso, Nim semplicemente imitava l’interlocutore, non producendo segni autonomi.