
È da poco trascorsa la ventinovesima Giornata Mondiale dell’Alzheimer, malattia purtroppo ben nota, che ad oggi causa quasi il 70% del totale delle demenze. Secondo i dati dell‘Istituto Superiore di Sanità (ISS), la demenza è una piaga che, solo in Italia, interessa più di un milione di persone. L’incidenza sempre maggiore di questa patologia (destinata a crescere secondo svariati studi) richiede un’accelerazione della ricerca su Alzheimer e demenze. Attualmente non esiste cura (alla quale si sta lavorando, ma con risultati incerti): si può quindi solo agire per rallentare il peggioramento dei sintomi.
La ricerca continua strenuamente e anche se, perlomeno in Italia, questo mondo fa poco rumore, non significa sia immobile.

La scorsa settimana si è tenuto a Firenze il XVII Congresso Nazionale del SINdem, un’associazione senza fini di lucro aderente alla Società Italiana di Neurologia, il cui scopo è quello di promuovere lo sviluppo della ricerca scientifica nel campo delle demenze. I tre giorni di congresso sono stati occasione di confronto su tematiche come malattie neurodegenerative, diagnosi precoci e supporto ai pazienti ed alle loro famiglie.
Primo giorno: un occhio al linguaggio

Ad aprire le danze sono stati ricercatori che negli ultimi anni hanno studiato come il linguaggio cambia nelle persone affette da diversi tipi di demenze. Esistono infatti studi che hanno riscontrato la presenza di alterazioni nelle abilità linguistiche in soggetti affetti da patologie come Alzheimer o Afasia Primaria Progressiva. Frasi interrotte da tentennamenti e pause, errori grammaticali diffusi, sostituzioni di parole con altre: ad ognuno di questi pattern sembra corrispondere una demenza specifica. Pare quindi che lo studio del linguaggio possa aprire nuove finestre sul mondo della ricerca delle malattie neurodegenerative. Gli argomenti che si sono susseguiti nel resto della giornata vanno dalle conseguenze neuropsicologiche causate dal Covid19 fino alle ultime ricerche su quelli noti come “marcatori biologici” per le demenze.
Insomma, una degna apertura.
Secondo giorno: una questione di empatia e di genere

É un argomento molto delicato quello che è stato il protagonista principale durante la seconda giornata. Sono tante le famiglie che, in seguito ad una diagnosi come quella di Alzheimer, si sentono lasciate a sé stesse, senza soluzioni concrete alle proprie necessità. A ciò si aggiunge la frustrazione diffusa legata alle diagnosi tardive: alcuni sintomi della demenza talvolta appaiono prima dei 65 anni, ma vengono spesso sminuiti ed attribuiti a “stress” o “ansia”. Le conseguenze? Diagnosi che arrivano ormai troppo tardi, terapie che risultano inefficienti e impatto psicologico devastante sul paziente. É quindi molto sentito il bisogno di formare al meglio il personale medico ed i caregivers, sensibilizzandoli all’ascolto delle necessità più “personali” delle famiglie. Si è inoltre parlato di quanto sia importante riconoscere i bias di sesso e genere nel campo della ricerca. Nella maggioranza degli studi sulle demenze i pazienti presi in analisi sono di sesso maschile: i sintomi e le risposte alle terapie sono però diverse tra i due sessi. Questo è dovuto alle marcate differenze cerebrali tra i due. Ha quindi senso continuare a basare i nostri criteri diagnostici su dati che forniscono così poche informazioni su una fetta così grande di popolazione? Non sono mancate nemmeno osservazioni sull’impatto che possono avere i bias di genere (attenzione, genere, non sesso) nell’approccio al paziente con demenza: osservare il modo in cui l’appartenenza di genere, con le pressioni dovute ai ruoli sociali che ne derivano, condiziona l’impatto e la risposta alle malattie neurodegenerative, potrebbe sensibilizzare all’approccio con il malato, contribuendo allo sviluppo di un percorso personalizzato e più adeguato alle sue esigenze personali.
Terzo giorno: un nuovo importante alleato
Può l’intelligenza artificiale (AI) aiutarci nella ricerca sulle malattie neurodegenerative? Si è discusso soprattutto di questo durante la terza ed ultima giornata di congresso. La risposta a questa domanda è “sì”: l’AI si dimostra essere un ottimo alleato per i ricercatori. Oggi è infatti possibile accedere a complessi sistemi di “Big Data” che includono centinaia di analisi fatte su pazienti affetti da demenze e che uniscono i fattori chiave dell’insorgenza e l’evoluzione della malattia. Questi sistemi potrebbero essere di grande supporto ai medici che lavorano in questo ambito, fornendo loro sempre più informazioni e permettendo quindi diagnosi più accurate e tempestive. Sono stati inoltre presentati studi che mostrano come alcuni algoritmi di Machine Learning siano molto accurati nel predire e classificare vari tipi di demenza. Lo studio sulle diverse applicazione dell’AI nella ricerca sulle demenze prosegue quindi fiduciosa e, per ora, porta risultati che fanno ben sperare.
Insomma, a riprova di quello che si diceva prima: la ricerca fa poco rumore, ma lavora tanto.

Alessia Tavars